Info Evento
di Chicco Dossi
con Simone Tudda
primo spettatore Renato Sarti
produzione Teatro della Cooperativa
"Io dovrei concludere dicendo: ho fiducia nella giustizia. Rimbalzo la domanda: avreste fiducia voi? Io vi dico: sono innocente! Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti. Io sono innocente, e spero nel profondo del cuore che lo siate anche voi".
Dalle parti di Corso Magenta, a Milano, proprio davanti dal Teatro Litta, c'è Largo Enzo Tortora. Quasi più una commemorazione che una targa toponomastica – non credo che possieda nemmeno un numero civico – in piccolo, sotto il nome, reca la scritta «giornalista» e le date di nascita e di morte: 1928-1988.
Più per curiosità che per senso civico, un giorno, ho deciso di informarmi. Ho scoperto che il «caso Tortora» era ben noto alla generazione di mia madre e assolutamente sconosciuto alla mia. Un caso di malagiustizia, forse ancora più eclatante perché perpetrato ai danni di una persona nota agli italiani, dal momento che il suo volto teneva banco per un'ora e mezza a settimana sulle reti nazionali. Un episodio che assumeva contorni sempre più agghiaccianti, man mano che lo approfondivo: nessuna presunzione di innocenza, accuse mosse senza prova alcuna, magistrati smaniosi di arrestare il "nome grosso" che non leggono gli atti dei processi, blitz antimafia venduti alla stampa ancora prima che avvengano, il tutto ai danni di un uomo totalmente estraneo ai fatti e non associato in alcun modo agli ambienti camorristici.
Spesso riteniamo che il XXI secolo sia l'era delle fake news, dello strapotere dei media – siano essi tradizionali o social – nel dirigere da una parte o dall'altra l'opinione pubblica. Il caso Tortora è l'esempio lampante di come la manipolazione delle informazioni affondi le sue radici più indietro nel tempo: testate autorevoli e firme di tutto rispetto hanno contribuito a questa grottesca macchina del fango basata «pettegolezzi giudiziari», fiumi di calunnie imperniate sul "sentito dire", cacce grosse allo scoop più bieco per dipingere una persona onesta come un mostro dalla doppia faccia – quella del presentatore che intrattiene le famiglie sulla TV di Stato e quella del malavitoso capace di spostare milioni di lire e chili di cocaina con uno schiocco di dita.
Il caso Tortora non è incredibile soltanto per la crudeltà con cui giudici, stampa e opinione pubblica si sono accaniti nei confronti di un innocente. La storia di Enzo è la storia di un uomo che, dall'alto della sua posizione di personaggio pubblico, ha deciso di farsi portavoce di una battaglia che non ha colore politico: quella della giustizia giusta. Avrebbe potuto darsi alla macchia come già altri – meno innocenti – prima di lui avevano fatto, avrebbe potuto sottrarsi a un processo che sapeva essere iniquo. Consapevole di essere innocente, Tortora si è spogliato dell'immunità di europarlamentare per farsi giudicare da un tribunale che non lo vedeva come imputato ma come nemico. Consapevole di essere innocente, ha messo la sua storia a disposizione di tutte le persone che sono nella sua stessa situazione ma non hanno i mezzi e le possibilità di essere giudicati in maniera equa.
Il monologo – interpretato da Simone Tudda (Segnalato al 30° Premio Hystrio alla Vocazione) – si dipana in una narrazione continua dove la diegesi oltrepassa i confini narrativi per sfociare nel dialogo, risale nel resoconto storico, dove i dati sono sempre raccontati in maniera essenziale per comprendere le vicende, si alterna tra la terza persona di un narratore onnisciente che va a spiare i detenuti del carcere di Forte Longone e la prima persona del giornalista, fino a scavare nella sua interiorità nel momento dell'arresto, provando a immaginare come possa essersi sentito, braccato in piena notte dai carabinieri all'Hotel Plaza di Roma. Iniziano così i suoi anni nell'occhio del labirinto, espressione che vuole unire la claustrofobia di chi non sa quando – e soprattutto se – potrà uscire dalla prigionia fisica e mentale con il voyeurismo giustizialista della stampa che, per una copia venduta in più, non ha esitato a ignorare i fatti per far posto al sensazionalismo più bieco.
Enzo Tortora muore la mattina del 18 maggio 1988 nel suo appartamento di via dei Piatti, a Milano, stroncato da un tumore ma – almeno questo – da uomo libero. La sua vicenda non può e non deve rimanere una targa su un muro del centro di Milano, un trafiletto sui giornali nell'anniversario della morte o un brutto ricordo nella gioventù della generazione prima della mia. Questa storia va raccontata affinché, di casi Tortora, non ce ne siano mai più.
Chicco Dossi
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